Cap. 18 Le ragazze che ballavano col destino - da "La Ragazza che abbandonò il Destino"
- Alessandro Niccoli
- 22 mar
- Tempo di lettura: 14 min
Aggiornamento: 23 mar
18
Le ragazze
che ballavano col destino

Khalil disse agli altri: “Adesso andiamo a mangiare fuori”.
Safaa non rispose ma il suo sguardo parlava da solo; era sintonizzato su un altro canale, senza la loro compagnia, senza compagnia maschile, e mentre gli altri due si chiedevano cosa avesse in mente, lei subito rispose al loro sguardo basso e incerto, togliendogli quello stato di dubbio per trasformarlo in malinconia e stupore. Disse loro: “No, ho un appuntamento”.
Khalil e Nafis si guardarono e con lo sguardo chiesero a Safaa di cosa si trattasse, ma lei non rispose, pensando alla sua diversa visione della serata e delle cose: quella della ricerca di un senso, di un perché, di trovarsi in quel Paese così diverso e dalla cultura così lontana, annidata tutta negli occhi delle persone. Voleva adesso cercarla, in quella sera carica di energia.
Si alzò e disse agli altri: “Mi vado a preparare”.
E andò a rufolare nello zaino alla ricerca del suo Juleba verde. Trovato in fondo allo zaino, sommerso dalle altre cose, ma ben piegato, lo scosse forte con leggiadra veemenza di fronte agli altri, che avevano tutta l’attenzione e la concentrazione puntata su di lei, e li fece sobbalzare.
Subito dopo disse loro: “Vado ad una festa”. “Come ad una festa?” disse Khalil, mentre Nafis non fece una piega osservando il melone che aveva davanti a sé e pensando che era il momento di aprirlo.
Khalil aggiunse: “Ok, allora andiamo alla festa. Che festa è?”. Safaa rispose: “Mi dispiace davvero Khalil, ma gli uomini non sono ammessi”. Quindi Khalil guardò sbalordito Safaa e Nafis e disse: “Come, dai… e perché mai?”, guardando Nafis. Quest’ultimo tolse l’attenzione dal suo melone un po’ infastidito, guardò Khalil dritto negli occhi e gli disse: “Khalil, se non lo sai tu che sei del Marocco come faccio a saperlo io? Anzi dovresti essere tu a spiegarlo a noi”, con il coltello puntato sul melone e, finita la frase, lo divise in due con un colpo secco, che di nuovo fece spalancare gli occhi a Khalil. Lui rimase un attimo impietrito con gli occhi sempre spalancati e i denti serrati, poi disse a Nafis, quasi balbettando: “Effettivamente qui funziona così, alle feste delle donne noi uomini non siamo molto graditi ed è meglio se le lasciamo stare, ma ora non pensavo che, subito così, Safaa si mettesse a praticare questa usanza, con donne marocchine, a fare il circolo esclusivo”.
Nafis non rispose nulla, i suoi occhi erano tornati subito sul melone, era concentrato su questo, ci vedeva dentro la dolcezza della natura e gli sembrava, guardandolo dentro in ogni suo filamento rosso fino alle cellule, di esservi immerso dentro.
Safaa sorrise divertita e andò verso il bagno per prepararsi, non prima di aver detto: “Paese che vai, usanza che trovi; ogni Paese ha le sue libertà nascoste, qua ce ne sono per le donne, a quanto mi par di capire, e stasera vorrei esplorarle”.
Indossato il suo luminoso Juleba verde Safaa uscì di casa, mentre gli altri erano ormai intenti a mangiare quel melone ricco di sapore, in preda ad una foga indomabile. Khalil per sopprimere ogni altra aspettativa senza più pensare a nulla, e Nafis per assaporarne il succo più intenso, poi lui avrebbe passato la serata a guardare dal balcone la grande città baciata dalla luna. Sobbalzarono di nuovo quando Safaa chiuse la porta, stettero un mezzo secondo fermi con i pensieri immobili e gli occhi fissi sul piatto, poi ripresero la loro foga sul melone.
Lei raggiunse l’indirizzo indicatole da Rim, suonò il campanello e salì due piani di scale, per ritrovarsi in cima a queste in un salotto marocchino, dove c’erano circa dieci ragazze, qualcuna con abiti tipici e qualcuna con jeans e maglietta, tutte ben preparate e truccate. Erano sedute su dei divani intorno ad un tavolo pieno di pietanze invitanti, dolci e succhi di frutta; c’era in sottofondo una musica araba a base di tamburi, ideale da ballare accompagnata dai canti. L’aria della festa era elettrizzante, Safaa non sapeva come entrare in contatto con gli altri, come salutare e chi salutare, ma di fronte a tanti sorrisi di benvenuto si sentì ben accolta. Poi vide subito uscire da un salotto lì accanto la sua nuova amica Rim e incrociati gli occhi con i suoi, quest’ultima la raggiunse a passi veloci e ondeggianti con un’espressione radiosa e l’abbracciò dandole tre baci. Era vestita con un lungo abito nero, aveva i capelli lisci e brillanti ed era finemente truccata, aveva un leggero profumo da sogno. Il suo fare era dolce e affabile; la prese per mano e la presentò alle amiche. Safaa non conosceva nessuna delle ragazze, ma entrò subito in sintonia con loro; quindi la sua serata iniziò con un inusuale senso di serenità e intimità ascoltando musica e mangiando i datteri e i dolci tipici, accompagnati da tè alla menta, che Rim versò con massima premura nei bicchierini di tutte quante. Qualche ragazza ballava, mentre altre, sedute al tavolino imbandito, insieme a Safaa e Rim, si scambiavano come potevano, con incredibile empatia, i loro pensieri e battute. Safaa ascoltandole, inevitabilmente con la sua mente faceva un parallelo con i pensieri, i sogni e i desideri espressi in Europa dalle sue coetanee.
Ascoltava le parole di Rim, ma soprattutto, dal suo comportamento e dal suo temperamento sereno, comprese che il futuro non dava loro preoccupazione, anche se sapevano che poteva essere non del tutto roseo, che forse il giorno successivo poteva non esserci sufficiente cibo. Erano ugualmente serene e sorridenti, non ci pensavano, completamente immerse in un presente fatto di gioia per l’amicizia, per le cose semplici che avevano quella sera e che assaporavano attimo per attimo. Con loro l’ottimismo era sempre presente in sottofondo, fuso in una spensieratezza che era incomprensibile per la maggior parte delle persone europee.
Safaa si trovava quasi in imbarazzo dato che non avrebbe saputo spiegare alla sua nuova amica cosa rendeva felice una giovane ragazza in Europa; lei era fuggita via da una felicità introvabile, via da casa, dal vuoto, dal nulla, dall’assenza di valori, dall’assenza di gioia, dall’assenza di speranza e di spensieratezza. Safaa quelle ricchezze che aveva trovato le aveva dentro, ma non riusciva a viverle in un ambiente dove non poteva condividerle con nessuno, ed esporle normalmente. Come spiegare tutto ciò a chi non ha niente, a chi a volte non ha neanche l’acqua calda, ma è felice di vivere con i propri cari e con i propri amici? Un paradosso quasi imbarazzante.
Per quella sera le ragazze si erano preparate con il loro abbigliamento tradizionale, il trucco leggero e curato; non c’erano uomini ma a loro piaceva vedersi al meglio, ognuna voleva colpire le amiche con la propria bellezza, ma la prima cosa che immancabilmente poi prendeva il sopravvento era lo scherzare insieme su ogni cosa, in una spontaneità totale. Erano i loro occhi che comunicavano la loro essenza, come difficilmente accadeva all’esterno, e che davano il via ad impeti di gioia, occhi che sprizzavano sorrisi dai loro angoli, occhi che davano intesa, e quando Safaa li osservava non riusciva a non sorridere, non poteva non intercettare lo stesso pensiero della sua interlocutrice; le sembrava incredibile, ma era così. Subentrava agevolmente un’impalpabile sorta di telepatia, mossa da impercettibili movimenti degli occhi, in un’energia cullata e protetta dai profumi. Erano arrivate tutte puntuali alla festa, ognuna con quegli occhi unici, come occhi di gatti spalancati sull’attimo presente, con tutti i sensi attivi, ad esprimere ognuna il proprio ingresso in casa facendosi ben notare:
“Io ci sono, possiamo iniziare!”
E mentre le ragazze ad ogni ingresso esprimevano una velata espressione di soddisfazione, il cuore di ognuna si rinnovava.
Safaa percepiva tutto questo, e anche se non lo capiva troppo bene, lo apprezzava tantissimo, tanto che si dimenticò di essere europea e si comportava allo stesso modo delle altre ragazze, dimenticandosi tutto il resto della sua vita, i malesseri e le persone tossiche. La musica e l’energia della festicciola portavano l’ambiente oltre l’immaginazione, oltre i vezzi di una cosmopolita. Di tanto in tanto partivano balli e canti, e nel mentre degustava le pietanze marocchine, dolci unici, i lmhancha, tanti e variegati tipi di Sabli, pasticcini fantastici, e poi i briwat farciti con mandorle, immersi nel miele e cosparsi di scaglie di mandorle, i kaaba e dei meravigliosi mealka, il tutto accompagnato da succhi di arancia e di canna da zucchero spremuti nel tardo pomeriggio dai venditori sotto casa.
Safaa durante quella serata pensava: “Certo che la vita, quando meno te lo aspetti, ti sorprende sempre, improvvisamente situazioni impreviste e imprevedibili accadono, e così questa strana cosa che è la vita, a volte dura e triste, talvolta inaspettatamente riprende colore e si riappropria di nuove possibilità e rinascite”.
Poi pensò ancora: “La vita contempla la morte interiore, ma contempla anche la rinascita… se solo apri la porta a nuove possibilità”.
In quella festa non si pensava ai desideri, quelli aleggiavano da soli nell’aria, erano presenti senza bisogno di pensarli e di citarli. Sembrava che fossero da soli lì davanti, ed era come se vi fosse una mano superiore che li gestiva e prima o poi li calava su di loro nel momento opportuno; questa era una certezza quelle ragazze che si godevano la beatitudine dell’attimo presente, in quello che era una vera e propria comunità. Tutte le ragazze condividevano lo stesso stato di coscienza, vivendo al meglio il qui ed ora, senza ricette, in modo semplice e spontaneo, senza ricorrere a nessuna alterazione artificiale come alcool o droghe, usanze fuori dal loro costume, ma neppure a status symbol, come abiti firmati, o copie di questi, bastava loro una bella maglietta e un qualsiasi jeans, limitato era il sentimento di invidia o gelosia in quell’ambiente dal forte senso di collaborazione femminile, con una lucidità e gioia tutta naturale e spontanea: si gioiva, si cantava, si ballava, si condivideva il tempo con una splendida energia vitale. Safaa pensava che tutto questo nel mondo occidentale potesse verificarsi solo in determinati ristretti ambienti culturali dove vi era una piena consapevolezza dei disastri del consumismo, del materialismo, dell’arrivismo, e una piena volontà di distrarsi e staccarsi da questi; in ristrette fasce sociali c’era questa coscienza e la vita era tutt’altra cosa rispetto all’andamento generale, soprattutto in alcune comunità o eco villaggi sempre più in voga, mentre nella generalità della collettività ogni persona era intrisa di individualismo e totalmente separata dalle altre, vuoi per lo stress, vuoi per contrasti ideologici, vuoi per egoismo, per vizi e lussuria, tali da renderle del tutto rinchiuse in loro stesse. In tale mondo occidentale, geloso della propria cultura, tutte queste soggettività individualiste si somigliavano, portando dentro semi simili fatti di arroganza e di ferocia, inculcata nelle menti sin dalla nascita; tutto ciò le allontanava da una vita felice e appagante, come avrebbe dovuto e potuto essere naturalmente, in un paese florido, perché l’uomo di per sé non nasce feroce, viene fatto diventare tale dal sistema sociale e culturale, che cattura tutti coloro che non riescono ad appropriarsi di una propria consapevolezza.
Safaa aveva trovato quella sera una comunità, dei rapporti e degli affetti, semplici e normali, ove alla base c’erano la ricchezza personale, valori di scambio e di crescita, che si ripetevano e si tramandavano oralmente dietro al tè della sera o settimanalmente nell’Hammam, valori semplici, ma tenuti per mano, sin dalla notte dei tempi, senza che mai avessero subito varianti a causa del consumismo, o del comunismo, o dell’essere o del dover essere. Varianti anomale dell’umanità che Safaa percepiva non attecchite in quel paese, forse a causa del sole africano, del clima secco, dei datteri e del tè, del rassicurante sempre presente saluto coranico ‘Salam alaikum’, o semplicemente, del vento del deserto.
“Questo è davvero strano”, pensava Safaa riguardo alla propria terra: “ambienti naturali più confortevoli, con colline verdi, corsi d’acqua, terreni fertili e clima mite, che tuttavia rendono l’essere umano permeabile a mille corruzioni del corpo e dello spirito”.
Quella che Safaa aveva incontrato era una collettività ricca di cose semplici e di giovialità nell’animo e nello spirito, e poi quelle piccole feste con musica ritmata da tamburi e da cantilene vigorose, espresse da donne orgogliosamente velate, e non, cantilene ossessive, propiziatrici di allegria, fiducia e sicurezza. Per quelle ragazze quella musica era l’unica musica che potevano ascoltare per divertirsi. Safaa, di tanto in tanto, provava a proporre un pezzo musicale ritmico molto famoso del rock o blues occidentale, ma in quella atmosfera non riusciva proprio ad attecchire, oltre ad essere completamente sconosciuto a tutti, e dopo le prime note di un qualsiasi brano che lei provava ad inserire, che fossero i Clash o i Beatles, o Ennio Morricone, o Louis Armstrong, i volti dei presenti si facevano perplessi. Safaa non riusciva a farsene una ragione. “Ma come è possibile?”, si domandava, “che queste musiche quasi tribali diano anche a me una sensazione di beatitudine e felicità migliore di tutti i pezzi più cult della storia della musica mondiale?”
Ed ecco che una volta reinserito un brano tipico locale il flusso di energia ripartiva positivo. Safaa allora comprese che quella musica, con ogni probabilità solo in quel luogo, era ideale per svagare la mente; mai si sarebbe sognata che ciò potesse accadere così facilmente. Aveva passato metà della sua vita ad ascoltare le musiche più quotate del suo mondo, in tutto il mondo occidentale, ascoltarle e riascoltarle per poter riuscire a comprenderle sempre meglio, nota per nota, ma ora si accorgeva che la musica rendeva liberi non quando veniva ascoltata per la sua geometrica perfezione, ma quando era vissuta con la propria anima e con l’anima del suo compositore, una vera equazione pura ma libera, non ricerca spasmodica di qualità della musicalità e geometria delle note, ma espressività dell’anima e della terra.
“C’è da dire”, pensava Safaa, “che l’occidente ignora quelle musiche, ignora quello stile di vita, ignora il passare del tempo senza produrre nulla, consumare assiduamente nulla, beni, cibo, vizi, lussurie, alcool, lussi e svaghi. Evidentemente questi ritmi, provenienti da ritmi tribali, e queste musiche per noi occidentali del tutto sconosciute, hanno un ruolo importante in quel panorama musicale che nasce da tempi immemori e che noi ignoriamo completamente, come tutta la cultura di questo mondo, limitandoci solo ad esprimere dei giudizi generici, dei cliché, ad esporre l’assenza di libertà femminile, gli uomini padre padrone, gli estremisti con le cinture esplosive”.
Pensò che il film cult italiano Padre padrone in realtà rappresentava proprio una cultura patriarcale e dominante sul sesso femminile, ancora oggi dura a morire, pensava alle centinaia di femminicidi nel suo paese, alle storture delle dittature comuniste, delle dittature fasciste e capitaliste.
I pregiudizi occidentali erano solo colmi di egocentrismo, tracotanza ed ignoranza e nient’altro; purtroppo la conclusione di Safaa era che la cultura occidentale aveva del tutto dimenticato da dove nasceva: dalla filosofia, dalla culla della civiltà; una rimozione nefasta per il suo mondo, cosiddetto ‘Buono’ posto a quindici chilometri al di là del mare.
“Mah!” esclamò Safaa tra sé e sé, decidendo di la- sciar perdere tutte queste considerazioni, e godersi le sue nuove conoscenze e frontiere... “Frontiere che in cuor suo sapeva esistere nell’animo di qualcuno, e di qualche comunità, da qualche parte, frontiere adesso da coltivare e tenere strette”.
Ora si riaggrappava ai sorrisi spontanei, col cuore nelle mani, e nelle mani di persone che lo cullavano; troppi pensieri si erano accavallati nella mente di Safaa, partecipando a questa festa di ragazze libere dentro, pur senza niente.
Dopo il divertimento di quella serata e il fluire dei suoi pensieri che parevano schegge impazzite, era ora arrivato il momento di rincasare. Il saluto tra le ragazze era caloroso, baci, sospiri e parole affettuose: Ihamdo lillah o Inchalla, ricorrenti nei saluti, non solo a richiamare quel Dio onnipresente in quel mondo, ma ad augurare che quella gioia vissuta insieme perdurasse anche per i giorni a venire… Inchallah… se Dio vuole, per lo studio, il lavoro, nella vita di casa, la sera sul letto guardando il soffitto e nient’altro. Quelle ragazze avevano poche cose per vivere, ma non ci pensavano; a loro bastava vivere con gioia la giornata, era sufficiente fare quello che era necessario per la casa, per le loro attività giornaliere, per la cura di loro stesse, dovendo riuscire a sorridere nella loro vita, al di là di tutto il resto. Sentivano così tutta la forza nelle loro mani e ogni giorno erano pronte a cavalcarla, anche se non succedeva mai niente, ogni giorno poteva sembrare uguale all’altro, ma non era così. Il tempo in quell’angolo di mondo non dettava alcuna regola o disciplina, assumeva un significato più profondo oltre al costruire beni e ricchezze, e andava vissuto sempre con gioia, con rispetto per gli altri, con amicizia, e con la consapevolezza che il cammino da percorrere non andava mai forzato; sapevano che il destino non le avrebbe tradite ed erano pronte a viverlo, nella buona e nella cattiva sorte, pronte ad affrontare qualsiasi cosa questo avesse loro riservato, senza incertezze, con i propri sogni nel cassetto in perenne attesa ma senza alcuna foga di raggiungerli, forse non avevano neanche la pretesa di essere dei sogni. Quelle ragazze, alla fine non potevano permettersi di sognare, non potevano, ma almeno volevano vivere come un sogno… e così facevano.
Safaa aveva tratto le sue somme: “Quello che ho vissuto stasera è tutto l’opposto della mia vita passata: una continua fuga dalla società e dalla famiglia, ho abbandonato il mio destino scritto, ho dimenticato di attenderlo come elemento ineluttabile, e fuggo; ma adesso, forse mi trovo di fronte ad una nuova formula scritta per me, ad un nuovo destino che con forza mi si ripropone davanti, un nuovo approccio alla vita. Forse dovrei smettere di chiamarlo così, perché di fatto qua il destino è solo un lasciarsi vivere apprezzando l’esistenza con dei valori antichi alla base, ancora non travolti dal consumismo, mentre in occidente il destino è un dover fare, un dover costruire, un dover dimostrare; un destino scritto, completamente falsato, dal quale dover staccarsi, per poter vivere davvero, quello vero”.
Stavano per andare, ma tutte le ragazze, improvvisamente, si adoperarono a fare ordine, sembravano diventate d’improvviso delle lavoratrici a catena, e con dedizione minuziosa in poco tempo tutto era in ordine e pulito, dai tappeti al tavolino, in quel salotto marocchino.
Safaa tornò a casa all’una di notte, la accompagnarono quattro amiche fino alla porta della sua abitazione a quindici minuti e quattro isolati di distanza, a quell’ora semideserti, popolati solo da bande di gatti tranquilli nelle loro postazioni, ogni colonia vicino alla sua casa e alla sua gattara preferita, ogni strada aveva la sua.
Safaa salutò le nuove amiche, Rim, Chaima, Salma e Ranya, e in modo affettuoso le parole “a presto” e Inshallah, erano confortate da un abbraccio divenuto elemento importante nella sua vita, con la consapevolezza per tutte di aver trovato una nuova amicizia, calore, e motivo di andare avanti. Ognuna di loro quella sera aveva trovato un’isola dove andare a cercare, anche solo col pensiero, quello svago e spensieratezza vissuti, essenza vitale, tutte le volte che ve ne era il bisogno. Safaa salì tutte le scale piano piano, mentre ripensava con gioia alla personalità e cultura di quelle amiche; aveva passato una serata in totale armonia, con lo spirito alto senza che vi fosse un domani, come mai le era capitato in passato.
Pensava che i dolci succhi di frutta e il tè alla menta avessero contribuito al buon umore e alla magia, che insieme alle ritmiche musiche locali, fatte di tamburi e Aissawa, alle ossessive cantilene femminili, l’avessero trasportata in un’atmosfera unica, di fermento, di nuovi sogni e motivi per sorridere su cose non buone del passato e, allo stesso tempo, sentire vicini i progetti una volta considerati irraggiungibili; tutto era lì davanti ai suoi occhi, tutto ora presente, senza proposito alcuno.
Questo non riusciva davvero a capirlo, dato che tutte le volte che in passato aveva fatto festa si ritrovava spesso a fine serata senza nulla di costruttivo nella sua mente. La scoperta di quel divertimento senza uomini, senza eccessi, senza alcool, ma dal calore che usciva dai cuori e dagli occhi, l’aveva invece arricchita. Giunta dentro casa i suoi due amici già dormivano, si stese sul suo letto e a occhi aperti continuò a riflettere, o meglio, ad ascoltare sé stessa per cercare di capire meglio e di godere ancora dei momenti trascorsi.
Rivedeva le immagini, i volti e i confronti con quelle ragazze di una cultura lontana, antica, forse medievale, e al tempo stesso moderna, vicina a lei, entrata dritta dentro di lei. Non sapeva se si sarebbe addormentata data tutta l’energia che si sentiva ancora addosso, ma proprio mentre si poneva questo quesito, improvvisamente cadde in un sonno potente, un abisso profondo, fino alle 4:30 della notte, quando i canti dei versetti col suono del corno del Ramadan mattutino la svegliarono cullandola e trascinandola ancora in un’atmosfera fiabesca e sicura, un fortino, per poi riprendere il sonno, libero da sogni, pensieri e turbamenti di quel destino abbandonato.
Ora la sua mente ballava da sola e basta, con i suoni dei tamburi della serata trascorsa e del corno del mattino che le rimbombavano dentro, la cullavano e la confortavano, ritmando il suo sonno in una beatitudine da trattenere solo stirandosi, e lasciandosi andare.
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