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Cap. 19 Viaggiare per amare



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        Viaggiare per amare

Avevano noleggiato un’automobile da un amico di Khalil, che gliel’aveva consegnata direttamente al caffè vicino casa. Il locale era tutto in legno, era ventilato con delle piante al suo interno, un’atmosfera calda e ricca di un presente ben afferrabile, sospeso nell’aria, visibile, non rimovibile da dove si trovava. Uno stare in totale quiete in un tempo che era totalmente fermo accanto a loro, appena mosso da una leggerissima brezza; quel tempo li accarezzava.

Safaa disse agli altri:

“Questo posto è esotico dal capo ai piedi, inimitabile”.

Stavano facendo una ricca colazione quando si presentò Younes, un ragazzo magrissimo in giacca e cravatta, con i capelli neri lunghi molto ricciuti legati dietro la nuca, viso scavato, occhi grandi e neri, ma la sua particolarità erano i denti, grandi e sporgenti, con un sorriso incredibile, sembrava il sorriso di un cavallo. Era talmente brutto ma tanto incurante della sua bruttezza e così radioso, che di fatto risultava bellissimo. Si mise al loro tavolo e tirò fuori in modo super professionale un contrattino da sottoscrivere. Nafis pur non capendo nulla di quell’atto scritto in arabo, si fidò ciecamente di quello strano ragazzo che pareva un po’ un Bob Marley maghrebino, un po’ un moderno carovaniere del deserto, un incredibile personaggio che sembrava vivere solo per diffondere gioia col suo volto, con i suoi grandi e radiosi occhi neri e quel sorriso pazzesco, tanto che Safaa fece colazione sorridendo, come difficilmente accadeva.

L’intenzione dei tre ragazzi era quella di andare a sud costeggiando l’Atlantico, per fermarsi via via nei posti più naturali della costa. Avrebbero lasciato con un certo rammarico quella città che li aveva ospitati sino ad allora come una culla colorata, con un caffè in ogni angolo, teatri, il castello portoghese sul mare, i gatti che sbucavano da ogni finestra sulle sue diroccate mura, gli abitanti ospitali e tranquilli, città aperta da sempre ai forestieri.

L’ultima sera che passarono lì si incamminarono su un lungomare infinito con alte palme, pratini, gente che passeggiava allegramente, musica ritmica e ragazzine che facevano la fila per farsi un giro in risciò, trainate per le piazze da ragazzini dediti a mirabili piroette. C’erano molte luci sopra a delle strane opere d’arte contemporanee fatte di metallo, poste sui pratini sul lungomare. I ragazzini correvano davanti alle loro mamme in velo con lunghi abiti, mentre altre erano in jeans e maglietta; ormai in quel paese non vi era più una regola ben precisa sul modo di essere, le influenze esterne erano molte, ma entravano nel paese a piccolissime dosi, quasi impenetrabili nelle menti.

Entravano l’arte e i cibi, ma poco altro, sia a livello culturale sia a livello musicale. Quel popolo aveva i suoi poeti e i suoi autori, cantanti e ritmi, era impossibile toccarglieli e il principale imperativo era solo l’essere soavemente allegri nel trascorrere le serate in compagnia. Safaa, Nafis e Khalil si sentivano membri di quella variegata e colorata società dove l’incontro tra le persone era come voluto dalla Mano di Dio, come piaceva dire a Safaa. Camminando sul lunghissimo lungomare dimenticarono la fame, ad un certo punto si imbatterono in un volto amico che li guardava dritti in faccia con un sorriso incredibile e occhi neri talmente luminosi e grandi che Safaa e gli amici non distinguevano i lineamenti del suo volto. Era Younes che si trovava lì a passare la serata; era da solo, ma pareva fosse in compagnia. Non lo riconobbero subito, erano straniti dal suo sguardo amichevole, irriconoscibile, infine i suoi incredibili denti bianchi e sporgenti fecero la chiara presentazione del ragazzo del mattino e lo

riconobbero tutti e tre nello stesso momento: “Younes!”, esclamarono.

Non lo avevano riconosciuto, erano stati abbagliati

dal suo sguardo, oltre che per gli abiti completamente diversi dall’eleganza professionale del mattino, quando aveva camicia e giacca nera per fare il contratto di noleggio dell’auto, quella sera aveva una semplice maglietta e un giubbotto, dei jeans stetti tutti rotti e delle ciabatte marocchine. Younes non era in compagnia, ma dava loro l’impressione che non si sentisse solo, sembrava che li stesse attendendo. A Nafis, quando lo riconobbe gli si illuminarono gli occhi e gli parlò solo con un sorriso allargando le braccia per poi abbracciarlo, Khalil si toccò il petto con la mano destra e disse: “Inchallah”.

Safaa non fece diversamente e chinando il capo, con un lieve sorriso sull’angolo destro della bocca, disse anch’essa: “Inchallah”.

Younes fece loro cenno di seguirli, li portò sulla spiaggia dove alcuni suoi amici contemplavano un falò e fumavano il narghilè con intorno i loro cavalli. Lì passarono la serata assaggiando il fumo alla menta di uno strano alambicco.

“Non provoca alcun effetto stupefacente” disse Nafis.

E Safaa rispose:

“E’ semplicemente un tabacco alla menta molto fresco”.

Con una musica di bonghi in sottofondo si consultavano con Younes sul tragitto da fare al giorno dopo, e allo stesso tempo il relax li assorbiva, non sarebbero andati neanche a dormire se il mattino dopo non fossero dovuti partire. Dovevano alzarsi presto per evitare di viaggiare nelle ore più calde, ma non potevano abbandonare quell’atmosfera da harem. In quel caldo secco la sabbia fresca sotto di loro sembrava la pelle della terra e i cavalli lì accanto a loro i suoi abitanti, le stelle erano le uniche luci, e il mare scuro le rispecchiava in un incredibile magico effetto. L’ambiente di quel luogo era una cosa sorprendente, predominava su tutto, rendeva piacevole colloquiare e il semplice stare insieme; l’aria calda da sud si incontrava col fresco dell’oceano e offriva il silenzio su un vassoio d’argento, che loro assaporavano con grande sorpresa. Pur perdendo importanti ore di sonno, il loro animo si stava riposando e caricando; un inaspettato sipario si era calato sul loro precedente modo di essere che contemplava molti momenti di stress, per fermare lo scorrere del tempo e introdurli in un dolce riposo dell’anima, senza scossoni, come se non dovesse finire, come già era loro successo: il tempo si era di nuovo fermato, come alla festa del paese, e pareva che non dovesse ripartire.

Ma la notte alla fine volò via e ora stavano macinando chilometri verso sud, in mezzo a grandi panorami fatti di vallate desertiche, talvolta ricche di ulivi, popolate di tanto in tanto da due o tre cavalli, qualche gruppo di dromedari, un solitario cane, e Safaa si chiedeva dove potessero trovare acqua da bere. Ogni chilometro il paesaggio si trasformava e l’aspettativa di vedere il nuovo era sempre più grande. Intorno alle due del pomeriggio, col sole alto, l’aria condizionata dell’auto smise di funzionare e loro iniziarono a boccheggiare. Il caldo dentro l’auto era forte e i finestrini aperti servivano solo a intensificarlo; passarono un’ora di viaggio quasi da incubo, i loro occhi erano spalancati e ipnotizzati, sembravano delle biglie di vetro, ma alla vista di una laguna infinita popolata da gabbiani e fenicotteri, dimenticarono tutto e rimasero letteralmente folgorati dal richiamo di quella natura potente, mai vista prima, infinita, calda ma fresca, vitale, dove i ragazzi percepivano l’essere animale e il poter affrontare il forte calore come un fatto naturale, che c’è e basta, che poi passa, dopo uno status di catalessi autoimposto, col respiro lento, il battito rallentato e le funzioni vitali abbassate volutamente al minimo.

Non appena trovato un piccolissimo centro abitato fatto solo di un mercato, un caffè, una banca, una moschea, una scuola e qualche casa, oltre al un provvidenziale meccanico, decisero di fermarsi; non potevano fare diversamente, la laguna avrebbe atteso. Il radiatore era bucato e il meccanico lo avrebbe riparato, ma non prima di quarantotto ore.

Safaa prese lo zaino in spalla e iniziò a camminare verso il mercato, mentre gli altri due le urlarono:

“Ehi aspetta, ma dove vai?”.

Lei voleva andare, vedere, guardare: guardare le persone, i bambini, i frutti di quel luogo, che assaggiò, e il loro sapore la rapirono. Ne comprò molti per poche dirham, riempì gli zaini dei suoi amici, anche con molta acqua; loro, mestamente col viso esausto e corrucciato, acconsentirono dato che lo sguardo vitreo, che ormai avevano assunto da tempo, non poteva opporsi.

C’erano dei bambini in tenuta scolastica e calzoncini che camminavano in una strada polverosa nel mezzo al nulla, facevano tenerezza a Safaa, in quel piccolo paese sperduto.

Quei bambini erano ligi al proprio dovere di studiare, felici di andare a scuola, con le loro tenute uguali e le loro piccole cartelle, nel luogo sacro dove si imparano le cose, dove si impara la vita, il mondo.

Perché un mondo esiste, anche per loro; per quei bambini il mondo bellissimo era quella strada polverosa, in quel paesino fatto di poche case, con davanti una valle infinita, un mare infinito, una spiaggia infinita, e uccelli bianchi e arancioni.

Quello era il loro mondo, l’unico mondo possibile e immaginabile, e Safaa non sapeva se compatirli o se invidiarli, li amava. Le bambine avevano le treccine e nel loro sguardo Safaa vedeva il proprio sguardo da bambina, vedeva i suoi sogni, quei sogni perduti ma che ora andava ricercando, e pensò: “I bambini sono uguali in tutto il mondo, vedono il mondo come la loro bellissima casa da vivere intensamente”.

Safaa avrebbe voluto abbracciarli quei bambini, avrebbe voluto dire loro di tenere stretti i loro sogni, di combattere per tenerli sempre con loro e per raggiungerli; ma loro non l’avrebbero capita. Non avrebbero capito perché una strana ragazza sconosciuta, dalle gambe nude, magre e con stivaloni prendeva confidenza con loro, quindi proseguì il suo cammino lungo la strada, dalla parte opposta a loro, nella direzione di uscita dal paese, dove si apriva una immensa visuale desertica. Camminava con lo sguardo stanco ma luminoso, pieno di voglia di vivere, lungi dall’essere vitreo come quello degli amici, era colmo di entusiasmo nel guardare ogni millimetrico mutamento del paesaggio ad ogni passo che faceva, nonostante il corpo debilitato dal caldo. Camminò fino a superare l’ultima casa bianca del paese, tutto il resto intorno era di colore giallo marrone, chiaro, la strada, le colline, le valli sino alle montagne, distese infinite di terra e sabbia, che si scontravano con il cielo celeste e brillante, solo qualche alberello lungo la strada che pareva nascondesse qualcosa. Safaa era sicura che dietro quelle file di alberi radi e sparsi, con pochi cespugli qua e là, ci fosse qualcosa.

Gli altri due la seguivano ammirando quel mondo sterminato con gli occhi di Safaa, non potevano non farlo, né ribellarsi, non avrebbe avuto senso; giunti in quel luogo stremati dal caldo, i loro corpi erano solo degli strumenti governati dalla mente e dalla voglia di ricerca che Safaa si portava dentro, quindi si fidavano di lei e si lasciavano guidare.

Camminarono due ore sotto al sole cocente fino al tramonto, che fortunatamente si avvicinava piano piano; lungo quelle praterie di steppa sterminate, desertiche i pochi alberi che incontravano sembravano salici piangenti. Safaa ad un certo momento uscì dalla strada e si addentrò in un boschetto che la incuriosiva, le piante offrivano zone ombrose, camminando si imbatté in una famiglia di dromedari. Questi non si fecero avvicinare, ma lei, incuriosita dalla loro magnificenza, dai loro occhi posti in una posizione del cranio che sembrava volessero guardare sempre più in su, sempre più lontano, con le palpebre abbassate a protezione dal sole, occhi ideali per il deserto, gli occhi del deserto, decise di ripiegare dall’abbraccio mancato ai bambini, abbracciando questi animali possenti; loro non si sarebbero insospettiti dai suoi gesti di amicizia, ne era sicura. Si avvicinò piano ad uno di questi, che rimase immobile ad osservarla con la coda dell’occhio, quando fu vicina osservò quel muso stranissimo dalle fosse concave e quegli occhi grandi, la sua maestosità, le ricordava la sua Quercia. L’animale curioso e non intimorito la annusò come faceva sempre Quercia, aveva due narici gigantesche, e si fece accarezzare, era un animale dolcissimo; poi questi si incamminò verso un sentiero, due piccoli dromedari timorosi di lei lo seguirono, e così fece anche Safaa, e di seguito i suoi amici. Nafis e Khalil si chiedevano cosa mai lei avesse in mente, o meglio: cosa avesse ancora in testa da fare, dato che stava arrivando la notte ed erano lontani dal centro abitato. Ma camminarono ancora un’altra mezz’ora in quello stradello stepposo in mezzo al nulla, con solo pochi salici piangenti e ulivi, poi le lontane montagne isolate. In quelle infinite steppe pareva che la terra talvolta si divertisse a crescere tanto per solleticare il cielo. Giunsero alla base di un’alta duna di sabbia, fatta a falsopiano, era molto lunga.

Safaa voleva salire fino in cima, ma c’era da camminare, le gambe di tutti quanti erano dure e stanche, quindi Khalil le chiese di fermarsi, ma senza ottenere risultato alcuno, poi le urlò:

“Dai Safaaa che senso ha seguire un gruppo di dromedari, ora basta! Tutto questo non ha senso, torniamo al paese a cercare un posto per passare la notte”.

Safaa non rispose e proseguì il lento cammino con il suo zaino carico, il cappello e due bastoni per aiutarsi nel cammino, la sua attenzione era tutta diretta sul dromedario. Ad un certo punto l’animale si girò e la guardò un attimo con le palpebre basse, come a dire: “Ma guarda, mi segue proprio questa qua”. Poi si voltò di nuovo e proseguì lentamente il cammino con quei piedi enormi, il doppio di quelli di Quercia. Erano piedi che la natura aveva studiato per il deserto. A Safaa sembrava che le avesse davvero fatto cenno di seguirlo, e senza rispondere a nessuno lo seguì.

I suoi amici erano molto stanchi, infastiditi e arrabbiati, la seguirono solo per un motivo: quando lei aveva un miraggio negli occhi e stava in silenzio succedeva sempre qualcosa di incredibile. Quindi continuarono a fidarsi e, a malincuore, a seguire il suo istinto, del resto era quello che più apprezzavano di lei.

In cima alla duna i dromedari si fermarono tutti guardando verso il sole che tramontava con gli occhi socchiusi che parlavano solo dei loro misteri e della vita nel deserto. Safaa camminava ormai molto piano, ma li avrebbe presto raggiunti, visto che erano fermi alla loro meta. Si fermò qualche minuto sotto l’ombra di un alberello, non perdendoli di vista attraverso l’aria tremolante; doveva rinfrancarsi un po’ per riuscire a raggiungere quella meta dal presentimento positiva, bevve un po’ e si bagnò la testa, il viso e gli occhi per renderli più reattivi di fronte a tutta la luce e i colori brillanti che aveva davanti, si tolse gli scarponi che legò allo zaino, e riprese il cammino lento mentre i suoi amici l’avevano raggiunta. Ora i suoi piedi nudi si trascinavano sulla fine sabbia tiepida, e iniziava ad intravedere il sole che stava scomparendo oltre quella duna, la sua curiosità di vedere quell’oltre che era nello sguardo dei dromedari era alta.

Attraverso i loro occhi vedeva e immaginava il sole calante, da questo illuminati; avevano i musi compiaciuti, erano adesso completamente immobili, in fila, rivolti verso l’oceano che lei ancora non poteva vedere. Doveva arrivare, appagarsi ad ogni costo, vedere con i propri occhi il mare.

Arrivò a pochi passi dalla vetta della duna, era esausta e si aiutava con i due bastoni, tutta curva, con il viso proteso in avanti e gli occhi spalancati verso quello che credeva di immaginare come un nuovo destino. Intanto i suoi amici erano di nuovo distanti una cinquantina di metri da lei, credevano che sarebbe tornata indietro e si fermarono. Khalil disse sorridendo: “E’ pazza… farà presto buio, farà freddo e non abbiamo nulla da mangiare… Safaaaa!!”.

Rimasero di sasso quando la videro arrivare in cima; fece crollare a terra lo zaino e il suo volto si illuminò del colore di quell’immenso sole, di arancione, i suoi occhi brillavano, la vedevano lì in cima, immobile, accanto ai dromedari; sembravano antichi soldati e animali in fila di fronte ad una magnifica terra da conquistare, traendo energia e carica da essa, in meditativa contemplazione.

Khalil e Nafis non ridevano più quando videro Safaa e i cinque dromedari lassù in cima alla duna a guardare in direzione del tramonto, come fossero pietrificati; non sapevano cosa ci fosse di fronte a Safaa e ai dromedari col muso proteso a raccogliere qualcosa dalla brezza, e lei che sembrava anch’essa un dromedario, con gli occhi illuminati di qualcosa che pareva immenso, che i due ragazzi non vedevano.

Nafis ad un certo punto si scosse, si risvegliò e riprese forte il passo, Khalil a ruota lo seguì; ora sembravano due maratoneti alla fine della corsa, agli ultimi estenuanti sforzi, dovevano arrivare lassù in cima. Avevano d’incanto trovato lo stimolo e camminavano a testa bassa, con il sudore che scivolava giù dai loro capelli sul naso e poi sulla bocca, facendo percepire loro il sapore del mare, stavano intuendo cosa c’era oltre quella duna tanto alta, che solo un visionario avrebbe voluto raggiungere; ormai erano attratti anch’essi, qualcosa diceva loro che dietro quell’ultima duna di sabbia ci fosse l’immenso oceano.

Arrivarono in cima e rimasero anch’essi estasiati, fermi in piedi accanto a Safaa e ai cinque dromedari, tutti in fila solenne davanti ad un immenso sole che tramontava sull’oceano a macchiarlo di arancione sino ad un’infinita spiaggia che si perdeva a vista d’occhio. Una spiaggia immensa quasi quanto il mare, incredibile, almeno cento metri di profondità, si perdeva a vista d’occhio a sud e a nord, mentre un’onda dorata, dotata di una potenza che veniva da lontanissimo, cavalcava la battigia per oltre quaranta metri, per poi tornare indietro piano, lasciando un velo d’acqua arancione su una riva che rifletteva il cielo per tutta quell’ampiezza; e così via. Il moto si ripeteva con l’anima della natura, mentre alcuni fenicotteri rosa vi camminavano lentamente sopra; quello spettacolo si ripeteva all’infinito, a nord e a sud, per decine di chilometri, mentre il sole, grande come una enorme palla di fuoco andava lentamente calando all’orizzonte.

Tutti erano lì in fila, persi in meditazione, Safaa, Khalil e Nafis non avevano mai visto in vita loro uno spettacolo come quello, mentre i dromedari lo vedevano tutte le sere, ma ogni sera ci tornavano. Safaa aveva intuito dal richiamo dello sguardo di uno di loro quella verità della natura da dover scoprire quella sera, l’energia e la potenza nascosta del mare.

Il sole andò giù e a quel punto tutti si destarono, come al risveglio di un sogno; Safaa si sedette su un masso. Gli altri erano estasiati, tutt’intorno c’era solo sabbia, distese immense di sabbia, con le montagne in fondo lontane e il boschetto di salici piangenti, il panorama naturale non poteva essere commentato, regnava solo il silenzio fatto dal suono delle onde e del canto degli uccelli.

Safaa ad un certo momento, ora che la magia stava mutando, disse agli altri:

“Tutti pensano che il deserto sia un luogo senza aspettative, lo pensano finché non lo vedono; il deserto offre sempre un miraggio, ma questa non è la comune favola che conosciamo; ti siedi su una duna di sabbia del deserto, non vedi niente e non senti niente, eppure nel silenzio qualcosa pulsa e luccica. Molte persone apprezzano le dune di sabbia dorata dei deserti, alcuni le adorano per la loro pace e tranquillità; tutto ciò potrebbe essere di per sé sufficiente per percepire l’amore, ma il miraggio che talvolta la natura materializza davanti a te può suscitare soltanto amore dentro di te. La natura non è scontata, va inseguita, va amata, va scoperto con fatica il suo mistero, e quando lo trovi capisci cosa sia l’amore… nient’altro è amore”. Nafis e Khalil rimasero in silenzio davanti a quel panorama che solo la potenza inascoltata della Madre Natura poteva aver previsto nel dare senso al deserto, in un suo momento di massima creatività, davanti a quei fenicotteri rosa e alle parole di Safaa, davanti a quel mare, con i dromedari fermi lì ad ammirare; quegli animali ammiravano tutte le sere le parole di quell’onda lunga e soave, le parole della natura che parlavano d’amore e di beatitudine.

Safaa disse agli amici:

“Questi dromedari vivono per questo e stasera uno di loro mi ha insegnato cosa sia l’unica ragione per cui si possa stare l’uno con l’altro: che ognuno possa sempre avere e proporre all’altro qualcosa di magico. Forse è questa la formula ideale dell’amore: la fiducia nella segretezza delle risorse dell’altro, la non esauribilità di ciò che è l’altro, e quel dromedario stasera mi ha donato quel qualcosa d’altro, più di ogni altro essere al mondo”.

                                                   



A breve la pubblicazione del cap. n. 20 "La comprensione"


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